VIS - Oltre i limiti

VIS – Oltre i limiti

di Flavia Sagnelli

 

25 Novembre, Giornata mondiale contro la violenza di genere

Siamo il risultato di secoli di storia. Siamo figli di realtà che si sono susseguite e trasformate per intere epoche. Noi, uomini e donne, abbiamo in comune con le parole della lingua che parliamo, l’etimologia e le radici.

Noi ci trasformiamo, ma non cambiamo e ci portiamo dietro, insieme al vanto della storia da cui proveniamo, anche la zavorra di attitudini malate e di realtà prive ormai di alcun significato, come una parola in disuso, arcaica, che non trova più il proprio contesto in una frase del nuovo millennio.

Oggi è il 25 Novembre, la giornata scelta per puntare il riflettore su una vera piaga della nostra società: la violenza di genere. E’ l’anniversario della morte delle tre sorelle Mirabal, barbaramente uccise per essere state delle ribelli verso una dittatura, quella che nel 1960 vigeva nella Repubblica Dominicana. Il loro destino fu crudele: picchiate, seviziate, stuprate ed uccise dai militari che poi tentarono di simulare una morte accidentale.

Un simbolo, dunque, che però ha poco a che vedere con il problema insieme al quale viviamo da sempre, ossia quello della violenza di ogni genere sulle donne, che la subiscono da secoli, pur non essendo delle ribelli politiche.

Violenza, che condivide la propria radice, “vis”, con la parola forza. Quella forza che dovrebbe essere qualcosa di positivo, di sicuro, di protettivo e che diventa invece paura, sangue, sopruso, vessazione e soggiogazione.

Una distorsione? Un retaggio? Un bug del sistema uomo?

La donna storicamente non ha mai avuto pari diritti dell’uomo né una vera identità individuale: non poteva studiare, non poteva reagire ai soprusi dell’uomo, non veniva creduta, non poteva decidere per sé. Era una proprietà, prima del padre e poi del marito, se si sposava. Nel diritto romano con il matrimonio diventava un’unica entità con il marito.

Si potrebbe parlare per ore, forse per giorni, della figura femminile nella storia.

Quello che ci interessa, però, è parlare della donna oggi e, soprattutto, della donna di domani.

Oggi il tema della violenza di genere è al centro di discussioni, movimenti, articoli di cronaca, pubblicità, simboli. Eppure, non si riesce a scardinarne i meccanismi.

Le statistiche sono spietate e, quel che più è grave, non sono neanche realistiche: una donna su tre ha subito violenza, si dice. Una su tre in base a chi denuncia, perché c’è un sommerso che fa ancora più male. Una realtà fatta di numeri che non si possono conteggiare, perché molte donne vivono nel terrore di denunciare il proprio carnefice: hanno paura per la propria vita, perché temono di finire uccise o hanno paura di non riuscire a vivere senza un uomo accanto, perché non hanno indipendenza economica, dunque liberarsi dalla violenza significherebbe non avere più un tetto sopra la testa o cibo in tavola. Altre si vergognano, perché si sentono in colpa: subire una violenza sessuale genera senso di colpa, incredibile, ma vero.

La violenza si manifesta in varie forme: c’è quella fisica, per cui l’uomo approfitta della propria vis per colpire fisicamente un essere più debole, per assicurarsi la sua obbedienza e la sua dipendenza o per punirla; c’è quella sessuale, per cui si costringe una donna ad un rapporto che lei non vuole avere; c’è quella psicologica e verbale, che normalmente viaggiano insieme, per cui senza colpire il fisico si riduce una mente alla subordinazione, si fa in modo che quella donna non creda in sé stessa e si cominci a sentire la nullità che l’uomo vuole che si creda; c’è quella economica, per cui si costringe una donna a non poter essere indipendente e dover per forza chiedere all’uomo qualunque cosa le serva.

In quest’ultimo periodo e, soprattutto in questi giorni a ridosso del 25 novembre, si legge e si sente parlare tanto, troppo di questa realtà desolante. Non voglio entrare nello specifico di storie che conosciamo tutti.

Quello che voglio è ragionare insieme sui perché e soprattutto sul come uscire da tutto questo.

Quello che credo è che il meccanismo malato che porta alla cronaca nera sia radicato nella società e che quando impazzisce, come una cellula tumorale, arriva all’estremo atto del sangue o della morte.

Quando parlo di radicamento nella società, intendo che sia davvero dentro tutti, anche dentro i “buoni”, quelli che non sfiorerebbero mai una donna neanche con un fiore.

Basti pensare, ad esempio, alle offese: nove volte su dieci quando un uomo offende una donna, che sia conosciuta o meno – pensate al classico diverbio automobilistico – lo fa usando accezioni sessuali dispregiative. Mi tagli la strada? Sei una troia. Rispondi male? Sei una zoccola. Sei brava sul lavoro e fai carriera? Sicuramente sei stata con qualcuno e ti ci hanno messo come conseguenza. Se degli stessi “peccati” si macchia un uomo, non sentiremo mai qualcosa che abbia anche solo lontanamente a che fare col sesso.

Trovo già solo questo parecchio eloquente rispetto alla innata necessità di relegare la donna a qualcosa che abbia a che fare con l’utilizzo. E trovo che anche solo questo sia una forma di violenza, così subdola, che ci siamo tutti abituati. Quanta vis possono avere le parole, gli atteggiamenti, i comportamenti reiterati nel tempo se ci viviamo dentro senza neanche accorgercene.

E noi donne siamo le prime ad essere così tanto abituate a certe parole e certi meccanismi, che troppo spesso ci accorgiamo troppo tardi che stiamo vivendo una situazione di violenza o a rischio violenza.

Questa associazione è nata per sostenere le donne, tutte, a prescindere da quali siano stati gli ostacoli che abbiano trovato lungo la propria strada e a prescindere anche dalla presenza di ostacoli. Ed è nata anche per sostenere gli uomini, per porsi, dunque, come strumento che aiuti nella comunicazione tra i sessi e nel bilanciamento dei ruoli e dell’armonia che tra uomini e donne può e deve regnare. Non è un’associazione che agisce nei casi di violenza, ce ne sono tante e lavorano benissimo, ma una realtà che da sostegno per un eventuale dopo, per realizzare un sogno.

E sapete cosa è venuto fuori? La maggior parte delle donne con cui mi sono trovata a che fare aveva conosciuto la violenza: fisica, psicologica, economica, verbale, sessuale, più o meno grave, ma era accaduto.

Quasi nessuna lo aveva mai detto. In quel quasi nessuna mi ci metto anche io.

Siamo andati oltre tutti i limiti. Viviamo in una realtà in cui troppe dinamiche sono ovvie e scontate ed in cui per tanta indignazione che esiste, vi è altrettanta rabbia, cattiveria ed ignoranza. E questo è ciò che imbavaglia una donna e non le fa raccontare cosa ha vissuto o vive: la paura della cattiveria, della rabbia e dell’ignoranza. Quella per cui una maestra viene licenziata per un caso di revenge porn, quella per cui una ragazza si è meritata lo stupro per come era vestita, quella per cui una madre di famiglia ha meritato le botte perché ha tradito e via così.

Io credo che dobbiamo usare la vis, quella forza irrefrenabile della parola, dell’insegnamento, dell’esempio e della cultura, quella forza buona, positiva e protettiva per cambiare la realtà e modificare l’etimologia delle parole donna e uomo, donando loro una radice comune, comune anche con le parole rispetto e parità, una volta per tutte.

Come? Con l’insegnamento e non solo con slogan e giorni di memoria.

Insegnare ai genitori come crescere i propri figli, maschi e femmine.

Insegnare a scuola una materia che potrebbe chiamarsi educazione alla convivenza.

Regolamentare i delitti contro le donne in modalità davvero efficace e veloce.

Socialmente fare in modo che non diventi un caso da titolo da prima pagina che una donna abbia ricoperto una posizione professionale, politica, scientifica o di qualunque genere, elevata.

L’unico modo per andare oltre i limiti della realtà in cui stagna e si crogiola la violenza di genere è la forza, femminile singolare, nel suo significato astratto di potenza positiva che può derivare dalla giusta educazione e dal giusto esempio.

Finché questo non accadrà, il messaggio che deve arrivare a tutte le donne è quello di non avere paura di chiedere aiuto, perché uscire da una situazione che non si vuole vivere si può e si deve.

Le favole esistono, ma sono quelle che ci raccontiamo e che creiamo noi.

Vi saluto con una canzone, Fiabe, di Loredana Berté. Una grande donna che ha conosciuto la violenza sotto varie forme.

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