Una stanza tutta per sé

Una stanza tutta per sé

di Flavia Sagnelli

Parità di genere, pari opportunità, uguaglianza. Argomenti che da decenni impegnano le menti e le penne di molti di noi. Il secolo scorso ha visto nascere ed esplodere un movimento che aveva l’obiettivo di portare la donna al pari dell’uomo nella società: il femminismo ha impiegato quasi un intero secolo per fare in modo che le donne non fossero relegate in casa con l’unico ruolo e funzione di crescere la prole e servire i mariti. E possiamo dire che, sebbene con qualche auspicabile aggiustamento qui e lì, il grosso è stato fatto e tra un uomo single lavoratore ed una donna single lavoratrice (entrambi senza figli,) benché ci siano ancora, le differenze sono decisamente minori rispetto ad uno scenario diverso.

Che succede, infatti, se questi due perfetti, sereni, soddisfatti, liberi individui single si incontrano, si innamorano e decidono di riprodursi?

Non sarebbe errato notare che la sproporzione dell’impegno richiesto nel mettere al mondo un figlio sia ravvisabile già nell’atto pratico e potrebbe essere tranquillamente utilizzato come metafora o allegoria di quanto attende i due nel futuro: un po’ di ginnastica da letto per lui, di durata variabile ma che nella più stancante delle ipotesi si esaurisce in una notte; un po’ di ginnastica da letto anche per lei seguita da stanchezza, nausee, privazioni alimentari, aumento esponenziale di peso direttamente proporzionale alla perdita esponenziale di sonno e comodità nei movimenti e dolori insopportabili. E tutto questo ancora prima di vedere il frutto dell’amore.

Appare chiaro che partiamo già con uno svantaggio in termini di impegno richiesto e ciò che viene dopo può sembrare un’ovvia conseguenza del fatto che le donne sono nate per diventare madri mentre gli uomini…meno dai.

Mettere al mondo dei bambini, nutrirli, pensare alla loro salute fisica e psicologica, farli sentire amati e coccolati, educarli, preparare loro colazioni, pranzi e cene – bilanciati e sani ovviamente – accompagnarli a scuola (dopo aver scelto la scuola migliore), accompagnarli alle attività extrascolastiche (dopo aver scelto quelle più adatte), accompagnarli alle feste di compleanno (e restare lì in ostaggio), decidere, in caso di malattia, se ci sia bisogno di chiamare il pediatra oppure si possa ancora fare affidamento sulle proprie forze; fare la spesa, pulire la casa, stirare, ordinare. E magari anche lavorare. Tutte queste attività o la maggior parte di esse ricadono sulla mamma. Il papà va a lavorare perché deve pensare al mantenimento della famiglia.

Pare ci sia una spiegazione scientifica per tutto questo. Biologica addirittura. L’origine andrebbe ricercata nell’antichità. Nell’antichissima antichità, quando le comunità che si formavano spontaneamente si organizzavano nel seguente modo: agli uomini, più forti fisicamente e prestanti, il compito di andare a caccia e procurare il cibo; alle donne, più deboli fisicamente, il compito di accudire i piccoli e gli anziani e provvedere alle “pubbliche relazioni”, data la loro innata capacità diplomatica e sociale.

Ora, pare che questo retaggio si sia radicato nei nostri geni, abbia occupato in modo totalitario il nostro DNA, si sia biologicamente accomodato nella nostra vita.

Non ho mai visto un uomo andare in ufficio con la lancia, vestito di pelle animale, facendosi largo nel bosco e difendendosi dalle fiere. Ho visto traffico, mezzi pubblici in ritardo, a volte città allagate. Ma niente, giuro, niente che giustificasse che l’homo sapiens modernus sia fisicamente adatto a lavorare e la donna no. Oppure la donna sì, ma con un trattamento economico sbilanciato. A meno che i redditi non siano calcolati in base alla massa muscolare, ma non mi risulta.

Dunque, questa certezza, scontatezza, ovvietà quasi doverosità che sia mamma a doversi occupare di quasi il 100% delle incombenze, perché resiste? E perché resiste in modo sempre più naturale da non riconoscerne più neanche l’importanza? Ovvio, non si può generalizzare: esistono realtà familiari bilanciate, uomini e donne che si dividono i compiti in modo equitativo, che prendono le decisioni insieme, ma questa non è ancora la regola. E non lo è perché socialmente è ancora radicata una profonda e marcata differenza tra compiti maschili e quelli femminili.

L’uomo ha il compito di trovarsi un buon lavoro, ottenere uno stipendio adeguato a poter mettere su famiglia, magari fare carriera, comprare una casa, risparmiare per le vacanze, mettere da parte quegli extra per la pay tv e qualche sfizio.

La donna del ventunesimo secolo ha il compito di fare tutto quello che fa l’uomo, se lo desidera, ma se arriva la maternità sarà nella maggioranza dei casi lei a rinunciare alla carriera o a doversi districare tra gli amletici dubbi dell’annosa questione se sia meglio pagare una tata o essere una buona madre (perché sì, ci sarà sempre qualcuno pronto a criticare qualunque scelta e a sentenziare che lavorare otto o dieci ore al giorno faccia di una donna una pessima madre), lei a rimanere a casa se il bambino si ammala, lei a provvedere alle necessità casalinghe della famiglia. Ed è utopia ed ipocrisia pensare che non sia così.

La colpa, se di colpa si può parlare, è di tutti: di uomini e donne. Degli uomini, perché anche il più illuminato e femminista cade nel tranello delle “cose in cui sei più brava tu” e delle donne, perché, diciamocelo, noi donne non molliamo il colpo mai.

Siamo più veloci nel prendere decisioni, siamo le regine del multitasking, abbiamo sviluppato il super potere di pensare contemporaneamente alla cena, ai compiti, alle influenze dei nostri figli, mentre rispondiamo al centesimo messaggio nella chat di classe e alla mail per quel cliente e un po’ ci irritiamo all’idea di delegare alla lentezza e spesso inadeguatezza (sia chiaro, rispetto ai nostri standard) maschile.

Ma se provassimo a delegare, a lasciar fare, a lasciar anche sbagliare, potremmo vivere meglio e riusciremmo anche ad essere comprese da chi non è abituato a fare quello che da sempre fa una mamma.

C’è un concorso di colpa, ci siamo affezionati alla biologia.

Ma quest’anno i nodi, tutti, sono venuti al pettine. Abbiamo vissuto gli ultimi decenni nell’illusione che qualcosa fosse cambiato, che stessimo sulla giusta strada per raggiungere la tanto agognata parità, che per quanto ci sia un forte disequilibrio, la cosa potesse essere realizzabile.

E poi fu covid. E fu quarantena. E fu lockdown. E le scuole furono chiuse.

E le famiglie dimenticate. E il 76% dei congedi parentali sono stati richiesti da donne. E il 30% delle donne ha dichiarato che, in caso di didattica a distanza anche per l’anno scolastico in corso, lascerà il lavoro. E le donne madri hanno fatto un viaggio nel tempo a ritroso di secoli. Non anni. Secoli. Quando i bambini venivano cresciuti in casa, non a scuola. Quando non c’era abbastanza denaro per studiare e mangiare. Quando per legge le donne non avevano diritto a nulla.

Ma la cosa più grave è che sembra che il lavoro svolto dalle donne, in particolare dalle madri e da tutte coloro che allevano bambini e rendono le case dei luoghi in cui è bello tornare, non venga mai considerato, né ritenuto importante.

E mi viene in mente Virginia Woolf con il suo capolavoro “Una stanza tutta per sé” quando si interrogava così: “La domestica che ha allevato otto bambini vale meno per il mondo che non l’avvocato il quale è riuscito a mettere insieme centomila sterline? Inutile farsi queste domande; perché ad esse non c’è risposta”.

Circa due secoli dopo è ancora impossibile dare una risposta soddisfacente a questa domanda, perché la realtà, mai come oggi, è che la donna madre, che ha in mano il futuro della società del domani, la responsabilità del noi che sarà, è dimenticata, scontata, ovvia. E lo è per la società e per chi ci comanda.

La cosa grave è che noi stesse donne troppo spesso non ci riconosciamo la giusta importanza, come se non ci fosse dovuta.

Questo deve cambiare. È questo il processo di evoluzione che dobbiamo innescare. Riconoscere l’importanza di un ruolo, chiunque lo compia. E riconoscere l’importanza della donna nel mondo.

Concederle una stanza tutta per sé: per riposarsi, per lavorare, per non sentire, per fare ciò che vuole.

Quante donne, nelle proprie case che mandano avanti in silenzio, hanno una stanza tutta per sé? In quale stanza, in questo 2020, le donne hanno fatto smart working?

In questa condizione di semilockdown, lockdown a zone, a fasce di età, ad attività, a classi e nell’incertezza di quel che sarà nei prossimi mesi, quante donne hanno quel piccolo spazio proprio in casa?

E voi? Ce l’avete una stanza tutta per voi?

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